Ecco un talento da seguire con attenzione. La pianista canadese Kris Davis opera a New York dagli inizi del decennio e dopo una prima fase legata a modelli neo-bop (evidente nel suo primo disco, Lifespan), ha iniziato ad esplorare territori più aperti, formando questo quartetto nel 2002 con il marito batterista Jeff Davis, il formidabile sassofonista Tony Malaby e il bassista Eivind Opsvik. In questi sei anni la formazione ha suonato regolarmente negli Stati Uniti, in Canada, Norvegia e Svezia diventando un organico fortemente coeso, che opera sul confine tra i modelli della libera improvvisazione post-free e un rigoroso quadro strutturale che fa capo alle complesse composizioni della pianista [di cui avevamo in passato recensito The Slightest Shift]. Dotata di una ricco background classico, Kris si muove con grande equilibrio tra la compostezza formale della musica da camera e la libertà di sperimentazione che ha acquisito nelle sue collaborazioni con John Hollenbeck, Ron Horton, Chris Speed e altri. Ne deriva un album sorprendente per maturità, fantasia e ricchezza di sintesi dove non mancano momenti di forte coinvolgimento ritmico, con sequenze iterate basate sul pianoforte compulsivo e martellante che sostiene le appassionanti improvvisazioni di Malaby. Da questo punto di vista il momento più convincente dell’album (anche per l’ascoltatore meno avvezzo alle cose d’avanguardia) è “Black Tunnel” ma nel percorso non mancano occasioni per coinvolgersi in una musica ricca di brillanti colori e animata da frequenti mutamenti di clima. Sul fronte dei solisti spicca innanzitutto l’impetuoso e avvincente lavoro di Tony Malaby legato alla pianista da una forte empatia. Il lavoro strumentale di quest’ultima è tanto più apprezzabile in quanto evita inutili protagonismi in funzione delle dinamiche complessive: ora è magmatico e tecnicamente eloquente, dai fortissimi clusters, ora si limita a scarne (ma efficaci) funzioni di sostegno. Segnatevi il nome di Kris Davis: ne sentiremo ancora parlare.
Angelo Leonardi